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Che ci fai con una pietra?

Francesco Aprile riporta un’esperienza di counseling con un malato di SLA tra piano personale e piano sociale

Che ci fai con una pietra?

Si chiamava Gaetano e mi ha fatto un regalo. Accettando di fare un percorso di counseling e, parallelamente, coinvolgendomi nel suo progetto chiamato “IO POSSO”, ha lasciato un segno profondo nel mio percorso personale e professionale. E, anche se dal 2020 Gaetano ci ha salutati per sempre, la sua storia pretende di essere raccontata al presente.


Gaetano e la SLA
2014. Gaetano Fuso è un poliziotto trentottenne, serenamente sposato e con una figlia di tre anni. Ama il mare e la montagna; gli amici vedono in lui un instancabile organizzatore di viaggi e serate. Ma la sua vita, nonostante la bella notizia dell’arrivo di una seconda figlia, viene rovinata dai primi sintomi di quella malattia che, dopo alcuni mesi, sarebbe stata diagnosticata come SLA.

La SLA (acronimo di “Sclerosi Laterale Amiotrofica”) è una malattia neurodegenerativa di cui ancora la ricerca ha svelato poco e per la quale non esiste a oggi una cura. A causa di fattori sicuramente genetici (ma forse anche in parte ambientali) i neuroni che trasmettono il segnale dal cervello ai muscoli (i cosiddetti “motoneuroni”) degenerano e muoiono. Di conseguenza, i muscoli della persona malata si atrofizzano progressivamente, fino al momento in cui il malato si ritrova completamente immobilizzato. Dalla diagnosi, l’aspettativa media di vita è di circa sette anni, ma il decorso è spesso soggettivo e molto dipende dalle scelte della persona. Infatti, quando la malattia arriva a intaccare i muscoli dell’apparato respiratorio, l’unico modo di continuare a vivere ancora qualche anno è di accettare di essere collegati a un impianto di respirazione artificiale, e non tutti decidono di sottoporsi a questo intervento.

Gaetano viene colpito dalla malattia con una recrudescenza rara: nel giro di pochi mesi si ritrova a letto completamente immobilizzato, nutrito artificialmente (peg), tracheostomizzato (è collegato a un respiratore artificiale) e bisognoso di assistenza per tutto l’arco delle ventiquattr’ore. Ma le sue funzioni psichiche restano integre. Come tanti malati di SLA nella fase avanzata, può comunicare con il mondo esterno solo con gli occhi, fissando le lettere sullo schermo di un tablet e componendo le parole che una voce elettronica legge per lui. La sua sopravvivenza dipende totalmente dalla tecnologia e dai caregiver, sebbene il suo pensiero sia rimasto lucidissimo e nulla gli sfugga della sua drammatica condizione.

La SLA e il suo decorso rapido e invasivo hanno avuto un impatto devastante sulla vita di Gaetano e sulla sua famiglia. Accettare il nuovo stato di cose e trovare le energie per vivere in pienezza sembra ormai impensabile. Giorgia, la moglie di Gaetano, chiede più volte alle strutture pubbliche delle forme di assistenza sul piano psicologico, ma i tentativi non vanno a buon fine per l’inadeguatezza dei professionisti designati e per la sfiducia che Gaetano (molto esigente) nutre in essi.

Nel gennaio 2015, Giorgia mi contatta chiedendo un supporto. Propongo di tentare un percorso di counseling a domicilio e Gaetano accetta, forse memore di un buon rapporto interpersonale nato tra noi in gioventù ai tempi dell’oratorio in paese o di qualche incontro più recente legato alla frequentazione scolastica delle nostre figlie.

Il setting domestico e i vincoli comunicativi
Nel caso di Gaetano, l’unico setting possibile in questa fase è quello domestico. Immobilizzato, non esce di casa da mesi. Brevi e sporadiche uscite sarebbero possibili solo dopo lunghe e complesse operazioni di spostamento dal letto alla sedia, operazione di cui ha molta paura, temendo che una manovra inappropriata possa danneggiarlo ulteriormente. I familiari insistono perché si alzi dal letto, ma ci riescono di rado. L’umore è pessimo, non dimostra volontà di contrasto alla malattia, sembra al contrario che si stia lasciando andare.

Mi reco in casa sua una volta alla settimana, in tarda mattinata, per un colloquio sfidante e dalla durata incerta, che mi richiede di mettere da parte le sicure “buone abitudini” del ricevere i clienti nel mio studio e di “navigare a vista” in una situazione tanto nuova quanto magmatica.

Pur definendo un confine di tempo e di spazio, chiedendo di essere lasciati soli in stanza, le necessità del caregiving e il contesto domestico spezzano continuamente il filo del discorso: Gaetano deve spesso chiamare l’oss di turno per la frequente operazione dell’aspirazione dei muchi o per un cambio di posizione, varie figure mediche si presentano in orari imprevedibili, il campanello annuncia amici e parenti in visita, il rumore di sottofondo dei macchinari salvavita è continuo. Mi impongo uno sforzo di concentrazione, è necessario ogni volta riprendere.

L’impatto della malattia sui processi comunicativi, strumento fondamentale del counseling, è devastante. Come detto, l’unico mezzo comunicativo di Gaetano è la scrittura su un tablet posto davanti al suo volto ed è una scrittura faticosa, generata dai movimenti oculari letti da un sensore. Un lento componimento, lettera per lettera, parola per parola. Seduto accanto al suo letto, posso solo aspettare che la voce del sintetizzatore legga il testo, sebbene preferisca leggerlo da me a bassa voce durante la composizione, per evitare che il volume della voce elettronica faccia conoscere il contenuto del colloquio agli altri presenti in casa. Il counselor perde così due suoi grandi alleati: il paraverbale e il non verbale. Non è possibile cogliere le preziose sfumature emotive del discorso: i silenzi, le pause, il tono di voce, le espressioni facciali, la postura, la gestualità sono fattori assolutamente appiattiti. Là dove un counselor lo prevedesse come metodologia di lavoro, non è possibile utilizzare il corpo come medium. Anche un semplice esercizio di rilassamento e respirazione è impedito: è una macchina a decidere la frequenza e l’intensità del respiro di Gaetano, che non può agire consapevolmente su di esso. Resta solo il canale verbale scritto, per di più affidato a una macchinosa mediazione tecnologica.

In queste condizioni, un ulteriore pericolo è in agguato: l’asimmetria comunicativa (e il conseguente “potere” della relazione). Lui scrive, io parlo. Lui lento, io veloce. Gaetano, di fatto, non può interrompermi mentre parlo né darmi un feedback non verbale; non posso “intuire” l’effetto che le mie parole hanno su di lui. Se la mia frase ha colpito nel segno o meno, se mi sto lasciando prendere troppo dall’enfasi oratoria, se ho toccato un argomento tabù… In altri casi, basterebbe una smorfia, un cenno, un tocco del cliente per svegliare il counselor dalla propria autoreferenzialità e ripristinare una comunicazione circolare e “paritaria”. Mi impongo, allora, una regola correttiva: fare interventi verbali contenuti e non ridondanti, con frequenti pause, nelle quali chiedo a Gaetano un feedback esplicito.

Il percorso: il piano personale
Nel primo incontro emerge con prepotenza la fatica emotiva di Gaetano. La progressiva perdita delle facoltà corporee e della sua vita attiva lo porta a una situazione di sconforto, la malattia che lo rende fisicamente dipendente dagli altri crea un cortocircuito e attiva dubbi radicali sul piano esistenziale: il proprio posto nel mondo, il senso del dolore, della vita e della morte.

L’unica strada che mi sembra percorribile è quella di sganciarsi dal confronto estenuante con il “sé” passato, di recuperare un senso nel presente e di esplorare se sia possibile una benché minima progettualità per il futuro. Senza negare o imbellettare la SLA ma, al tempo stesso, recuperando tutte le energie residue possibili. Tutto inizia allora con una metafora: “Hai ragione, io non posso capire come ci si sente nella tua situazione. Allora descrivimelo tu. Usando un’immagine… come ti senti qui e ora?”. La risposta è rapida e netta: “Come una pietra, pesante e inutile”.

La semplicità e la potenza della metafora sono la porta di ingresso di un percorso che, incontro dopo incontro, non punterà a “fargli cambiare idea”, ma a operare un’azione di reframing: la stessa immagine della pietra non viene contraddetta, ma ampliata assumendo un altro significato legato all’empowerment invece che alla passività. “Ok, Gaetano, ti senti una pietra. Allora rispondiamo a questa domanda: che ci fai con una pietra?”.

Gli incontri del percorso di counseling, durato circa quattro mesi, sono serviti a raccontare il proprio stato d’animo, metabolizzare le forti emozioni (rabbia, tristezza…) conseguenti alla malattia e alla perdita della “normalità” e soprattutto a recuperare una certa progettualità di vita lavorando sui canali residui. Passo dopo passo, Gaetano riprende energia e progettualità, esce di casa e partecipa alla vita della sua comunità, diventa un riferimento per altri malati. Per quanto mi piacerebbe gloriarmi di questo successo, onestà vuole che il merito vada dato allo stesso Gaetano e a un altro fattore: l’intreccio del lavoro sul piano personale con un’azione sociale, un progetto chiamato “Io Posso”.

Il piano sociale: il progetto “Io Posso”
Febbraio 2015. Proprio nei giorni del primo incontro di counseling, parte in parallelo un’altra iniziativa dal taglio sociale. Giorgia, moglie di Gaetano, crede che la prospettiva di un obiettivo da conseguire possa risollevare l’umore del suo compagno di vita e dargli una prospettiva di apertura. Così, chiede a Gaetano se ha un sogno da realizzare. Attraverso la propria esperienza di malato di SLA, Gaetano ha scoperto l’esistenza di un mondo sconosciuto ai più, quello delle disabilità estreme. In maniera tanto generosa quanto visionaria, quindi, dichiara di voler realizzare un accesso al mare per permettere di fare il bagno alle persone con gravi disabilità motorie e ai malati di SLA. Giorgia fa partire un passaparola tra gli amici: chi è disposto a dare una mano? La risposta degli amici è entusiasta e travolgente. Nel giro di pochi mesi parte un’incredibile raccolta fondi, si mette in moto una macchina organizzativa potente basata unicamente sull’impegno volontario e già ad agosto dello stesso anno il sogno di Gaetano si realizza: viene inaugurata la prima spiaggia libera attrezzata per malati di SLA che, in un solo mese e mezzo di attività, dà la possibilità a più di ottanta persone disabili e alle loro famiglie di godere del mare in tutta sicurezza. È una spiaggia completamente accessibile, con box infermieristico, personale sanitario dedicato e, per espressa volontà di Gaetano, è tutto gratuito.

Gaetano coordina il progetto, spiega le sue idee disegnando grafici e tabelle, partecipa alle riunioni, organizza il lavoro usando chat, e-mail, ecc. Sperimenta concretamente di non essere finito, di avere ancora qualcosa da dire e da dare. L’abusata parola “resilienza” cessa di essere uno slogan e si rivela una realtà concretissima. I volontari del progetto vengono coinvolti nel reframing della pietra, vengono invitati a condividere con Gaetano tutte le idee sugli usi possibili di una pietra. Le pietre in ogni loro forma e foggia sono il leit-motiv del gruppo, fino a diventare il tema del primo evento di raccolta fondi (la prima “pietra fondante”) del progetto spiaggia accessibile.

Il counseling e il progetto “Io Posso” si intrecciano e si danno forza l’uno con l’altro: da una parte, il progetto sociale dà la possibilità a Gaetano di sperimentarsi come persona ancora capace di relazioni, progettualità ed efficacia; dall’altra, il counseling diventa lo spazio in cui l’esperienza sociale di “Io Posso” viene riletta e armonizzata con le altre dimensioni della persona. Fino al punto in cui Gaetano detta al tablet un messaggio per i suoi amici, comunicando che ora sa cosa fare di questa pietra: “Sfruttare le sue potenzialità e costruire un cammino, edificare una muraglia e fare della sua durezza il punto di partenza e di forza”.

I frutti nel tempo
Gaetano ha terminato il suo percorso di vita nel 2020, dopo aver vissuto degli anni intensamente attivi e gratificanti anche nei momenti più difficili della malattia: ha viaggiato, è stato il protagonista di un videoclip, ha ispirato canzoni, è stato nominato Cavaliere della Repubblica e tanto ancora. Soprattutto, è diventato un punto di riferimento per tantissime persone. Dopo nove anni di attività, le spiagge di IO POSSO sono diventate tre, hanno accolto gratuitamente più di 1.400 famiglie (da tutta Italia e dall’estero) e sono riconosciute come una best practice di turismo accessibile, presa a modello anche da altre regioni e associazioni.

Il percorso di counseling a domicilio con Gaetano ha ispirato altri progetti dell’associazione, generando iniziative analoghe di supporto per le famiglie salentine colpite dalla SLA. La storia di Gaetano è diventata anche un libro illustrato per aiutare i bambini e le famiglie a parlare delle emozioni faticose con cui fare i conti quando la malattia irrompe in casa (qui un’anteprima). E sono ancora tante le onde generate da quella pietra che, per un istante, si era pensata inutile. Onde che ancora non smettono di propagarsi, tanta era l’energia e la vita racchiusa in Gaetano Fuso.


Bibliografia

Francesco Aprile

Counselor specializzato in Analisi Transazionale presso il Centro Berne di Milano, vive e lavora in Puglia. È co-autore del testo Le buone pratiche del counseling (FrancoAngeli, 2015).

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