Perché hai scelto di diventare counselor?
Ho sempre investito nell’evoluzione personale. Nel 2010 ho concluso una prima formazione esperienziale biennale a Berlino, alla quale gli istruttori consigliarono di affiancare lo studio del counseling, parola per me oscura all’epoca! Quel suggerimento ha trovato attuazione qualche tempo dopo, in un periodo in cui sentivo il bisogno di esplorare nuove prospettive personali: mi sono trasferito a Bologna e qui mi sono iscritto al master in counseling umanistico-esistenziale integrato. Già dopo il primo anno, ho capito di aver trovato la professione adatta a me, in cui spendermi efficacemente, facendo confluire esperienze e attitudini pregresse per metterle a sistema e a frutto: nella mia precedente attività, progettavo alloggi che accogliessero le esigenze speciali dei miei clienti; ora potevo facilitare i clienti stessi nel costruire le condizioni per il proprio benessere. Da qualche anno, il counseling è la mia professione esclusiva.
Qual è stata l’esperienza più impegnativa che hai affrontato e quale ricordi come più gratificante?
All’università ho studiato con Vittorio Gregotti, architetto e teorico del quale ho a lungo condiviso l’idea che oggi la semplicità sia il risultato dell’attraversamento della complessità. Lavorando con persone trans e non binarie, ho messo in discussione il mio maestro e accettato che la complessità non debba essere attraversata e possa essere scelta come condizione pienamente legittima. Il mio lavoro mi esorta quotidianamente ad accogliere e valorizzare le soggettività che incontro, la bellezza e liceità dei singoli percorsi di autodeterminazione della propria identità di genere. Ogni colloquio può quindi essere una prova impegnativa perché mi sprona ad accantonare schematizzazioni e semplificazioni, a mettere in discussione le categorie radicate nella cultura binaria e polarizzante in cui sono cresciuto e a rinnovare gli strumenti relazionali inefficaci in questo contesto, come il linguaggio: la sfida è convenire verso un punto di incontro sostenibile per la singola persona, senza cristallizzare regole universali. Si tratta di un lavoro impegnativo quanto necessario, che prelude all’intervento professionale vero e proprio.
Un’esperienza gratificante la vivo spesso nei workshop a indirizzo gestaltico, che da circa un anno conduco, per la comunità lgbtqia+ e le persone alleate: una costellazione di soggettività che di solito si incontrano in sottogruppi omogenei o in preparazione di eventi e azioni. Lavoro su temi di interesse trasversale, ma la gratificazione più intensa mi arriva quando chi partecipa trae qualcosa di non previsto dall’obiettivo del workshop. Per esempio, la possibilità di esprimersi come individuo prima ancora che come parte di un gruppo; l’occasione di spostare il focus da mancanze e rivendicazioni collettive, alle proprie emozioni e risorse; un contesto sufficientemente sicuro per concedersi un confronto franco con altre soggettività. Ecco, questa capacità del counseling di fornire il campo in cui le persone possono vivere una propria esperienza trasformante, che supera ed espande gli obiettivi previsti, è per me un aspetto molto prezioso della professione.
Il setting più particolare in cui hai lavorato o vorresti lavorare?
Soprattutto con i gruppi, ho lavorato in un interrato buio vicino a un’affollata stazione, in un appartamento signorile all’interno di un antico palazzo del centro, in una ex-fabbrica riconvertita a scuola di danza: ho scoperto di essere adattabile. Grazie alla mia precedente professione, so cogliere le potenzialità di un luogo e capire se può divenire ciò su cui invece sono intransigente: la base di uno spazio sicuro per i miei clienti, in cui io mi senta abbastanza a mio agio da rivolgere la mia attenzione esclusivamente all’intervento. Il setting dei sogni? Uno spazio trasformabile, al contempo intimo e ampio, quieto e accogliente, con un magnifico mare da una parte e una vitale metropoli dall’altra. Per fortuna, ho imparato a mitigare le aspettative e sono contento del mio piccolo studio nel quartiere multietnico della Bolognina: la vista mare può attendere.
Qual è il tuo “tocco” personale?
Ne ho due. Il primo riguarda il mio studio, dove ho allestito l’angolo dei colloqui come una sorta di “wunderkammer”: un’ampia raccolta di immagini su una parete e di oggetti su un’altra, un repertorio di suggestioni visive che uso con i clienti per agevolare l’identificazione di vissuti e modalità e per favorire l’espressione di emozioni e desideri. Il secondo è più personale: l’umorismo. Come counselor agisco in un contesto operativo in cui credo sia importante smontare la credenza che per evolvere sia necessario soffrire: autorizzarsi a osservare se stessi e il mondo secondo registri diversi – a volte con umorismo, talvolta anche con (auto)ironia – credo aiuti a reperire più risorse per il proprio benessere. Inoltre, sorridere delle imperfezioni riesce a generare grande accettazione di sé e degli altri.
Che cosa ti sta insegnando questa professione?
L’attività di counselor, specie grazie al lavoro con la comunità lgbtqia+, richiede duttilità e adattabilità nel mio modo di operare e di stare nella realtà. La professione mi fornisce un esercizio continuo che mette alla prova una mia generale tendenza alla rigidità. Ogni volta devo spogliare il mio sguardo dalle abitudini e personalizzare tutti i piani del confronto, creando strumenti adatti a chi ho davanti. Questa pratica si sta rivelando profondamente arricchente e trasformativa, perché espande la mia visione del mondo, non solo a livello professionale, ma anche e soprattutto personale.
Pietro Tomasi
Studia architettura a Venezia ed esercita per anni, progettando alloggi collettivi per giovani famiglie, anziani, persone con diverse abilità. A Berlino dedica quattro anni allo studio di pratiche somatiche e discipline olistiche, che contribuisce a portare in Italia. Vive a Bologna, dove si è diplomato in counseling umanistico-esistenziale integrato. Esercita come professional counselor presso il suo studio privato e tiene workshop con colleghe e colleghi. Ha contribuito a creare e co-conduce lo sportello di accoglienza e ascolto per persone trans e loro familiari dell’associazione Gruppo Trans. È socio AssoCounseling e un referente di Aicis – Associazione Italiana Counseling Integrato e Sostegno per la comunità lgbtqia+ e le persone alleate.