Quando comunichiamo non stiamo solo scegliendo il contenuto di ciò che vogliamo dire, ma anche identificando una modalità per entrare in relazione con l’altro.
La relazione è composta, infatti, da tre elementi: io, tu e noi. Ed è sul noi che è importante focalizzare l’attenzione.
Il professionista che si dedichi a lavorare sull’ascolto durante un colloquio di counseling consente, ad esempio, al cliente di creare da sé le basi e il percorso per il proprio cambiamento. Quando le persone si sentono accettate e valorizzate – secondo Carl Rogers – tendono a sviluppare un atteggiamento di maggior cura verso se stesse, al punto che diventa possibile prestare un ascolto più accurato al flusso delle loro stesse esperienze interiori: man mano che una persona comprende se stessa, la sua manifestazione esterna diventa più congruente. L’effetto visibile è quello di una maggiore autenticità e genuinità.
Durante i momenti di ascolto, la sollecitudine diventa la massima forma di attenzione che porta i circuiti neuronali di chi parla e di chi ascolta a connettersi, in una “risonanza empatica” che – come ci ricorda ne L’intelligenza sociale Daniel Goleman (padre fondatore del concetto di Intelligenza emotiva, ovvero di quel set di competenze che consentono di riconoscere, gestire e comunicare correttamente le emozioni) – crea un legame cervello-cervello di reciproca contaminazione.
Anche secondo lo psicologo Daniel Stern “la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri”.
Più autentico è il livello di ascolto e di cura, maggiore è il grado di sicurezza che prova chi racconta la propria storia. E chi racconta la propria storia lo fa, spesso, non solo per ottenere consigli, ma per poter esplorare, con fiducia, un terreno neutrale in cui la sua manifestazione possa essere accolta, senza giudizio.
Il linguaggio è solo uno dei tanti sistemi di comunicazione che l’essere umano ha a disposizione: è possibile farlo anche attraverso codici non-linguistici, tra cui risultano decisivi i segnali del comportamento non verbale (contatto visivo e movimenti oculari, postura, elementi para-linguistici, segnali di feedback, prossemica). Ma vi è anche una funzione metacomunicativa che riguarda l’aspetto relazionale della comunicazione.
Il linguaggio che usiamo costituisce, di fatto, la rappresentazione di un «sistema simbolico di comunicazione», in cui l’informazione che passa tra un emittente e un destinatario è codificata per simboli, tra i quali la scelta delle parole assume una particolare importanza semantica, perché riconducibile a quella competenza metacomunicativa che consente di confrontare, interpretare e comprendere i codici comunicativi, alla luce dei sistemi di riferimento propri e altrui.
Il linguaggio, dunque, può diventare un facilitatore dello scambio relazionale, perché ogni essere umano è profondamente connesso con l’altro. Questa consapevolezza consente di ampliare la nostra efficacia comunicativa (come sostenuto da Marina Mizzau, filosofa e docente di psicologia della comunicazione e del linguaggio).
Le parole, dunque, sono importanti. Anzi, le parole scelte per comunicare sono la prima traccia della narrazione valoriale ed emotiva che portiamo nel mondo.
Marshall B. Rosenberg, nell’omonimo testo di introduzione alla comunicazione non violenta, dice che le parole “possono essere finestre oppure muri”, perché ci possono aiutare – o no – a entrare in relazione con noi stessi e con gli altri e ad attivare quella predisposizione all’empatia di cui siamo naturalmente portatori.
Secondo Rosenberg, per imparare a ristrutturare il modo in cui ci esprimiamo o ascoltiamo gli altri dobbiamo prendere consapevolezza di quattro variabili: che cosa osserviamo, che cosa sentiamo, di che cosa abbiamo bisogno e che cosa chiediamo per arricchire le nostre vite.
Solo agendo contestualmente su queste quattro dimensioni della comunicazione, lavoreremo sulla nostra capacità di rimanere umani (anche in situazioni difficili) e genereremo una costante connessione tra noi e gli altri, attraverso la sorgente del cuore.
Il linguaggio che usiamo, però, è in continuo cambiamento: si diversifica nello spazio geografico, si specializza in sottocodici, si modula in registri e, soprattutto, continua a nutrirsi della realtà cui afferisce, la plasma, ne assume e integra le componenti ideologiche, culturali e sociali.
Se pensiamo al linguaggio inclusivo, la prima cosa che ci viene in mente è adottare un modo di comunicare che tenga conto delle diverse identità, esperienze e prospettive delle persone, cercando di evitare discriminazioni o esclusioni basate su caratteristiche come il genere, l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale, l’età, le diverse abilità e altre caratteristiche personali.
Sicuramente l’attenzione crescente verso forme di comunicazione verbale e iconografica gender sensitive ci sta educando a scegliere stili di comunicazione più rispettosi dell’altro. Ed è un bene.
Ma l’uso di un linguaggio inclusivo costituisce, soprattutto, uno strumento evolutivo, che può aiutarci a creare un ambiente sociale rispettoso e accogliente, dove la persona si senta accettata nella sua unicità.
Pensate a quanto possa rivelarsi strategico nel veicolare cambiamenti di trasformazione culturale come quello in corso, a sostegno della parità di genere.
La normativa che ha introdotto la certificazione di genere (l. n. 165/2021 e successiva prassi di riferimento UNI:PdR 125/2022), offrendo alle aziende virtuose che raggiungano obiettivi misurabili, di ottenerne la certificazione, è stata sicuramente l’occasione per aumentare la consapevolezza sull’importanza di promuovere parità, equità e inclusione nelle organizzazioni, ma costituisce anche un’importante opportunità per ripensare il modo in cui comunichiamo la parità e il rispetto di tutti i generi e per fare una riflessione più ampia sul tema delle culture di genere e sulla necessità di “degenderizzare” il linguaggio.
Ce n’è molto bisogno in un momento storico, come quello attuale, caratterizzato da una comunicazione fortemente aggressiva e orientata a creare contrapposizioni (io contro te) e ad alimentare faziosità, spesso anche facilitate da ambienti “virtuali” che parlano poco il linguaggio del corpo e delle emozioni.
L’empatia e l’ascolto attivo sono tra gli elementi che costituiscono, invece, la base della vita sociale (e della nostra pratica professionale di counselor), per realizzare quello che Martin Buber chiama il rapporto io-tu, cioè quello tra due soggettività distinte ma di pari dignità, diverso dal rapporto io-esso, dove l’altro è mero oggetto.
Educarsi ed educare alla pratica di un linguaggio inclusivo non significa, quindi, solo scegliere responsabilmente i pronomi da utilizzare per rispettare la sensibilità di genere di chi abbiamo di fronte, o inserire la schwa (ə) per uscire dall’impasse del maschile sovraesteso usato – nella grammatica italiana – come neutro. Sebbene sia importante abituarsi a farlo, per nominare e ricomprendere nel discorso più categorie possibili di destinatari.
Educarsi ed educare alla pratica di un linguaggio inclusivo, significa anche, prendersi tempo per scegliere responsabilmente le parole, essere disponibili ad ascoltare con il cuore, osservare le reazioni e le sensibilità dell’altro, sostenere lo spazio del silenzio, accettare la parola “no” senza prenderla come un rifiuto e lavorare sulla consapevolezza dei nostri inevitabili stereotipi e pregiudizi, cercando attivamente strumenti per superarli.
Non possiamo, infatti, pensare di cambiare il mondo esterno se non ci rendiamo disponibili a cambiare prima noi stessi.
Educarsi ed educare alla pratica di un linguaggio inclusivo significa (soprattutto nel counseling, ma non solo) scegliere con cura le parole che possano trasmettere fiducia all’altro e promuovere la sua autonomia e autodeterminazione come segno di inclusione e rispetto, evitando giudizi, critiche e svalutazioni che possono ostacolare o bloccare il suo sviluppo.
Educarsi ed educare alla pratica di un linguaggio inclusivo vuol dire anche rivolgersi gentilmente a se stessi e accettarsi come esseri umani mortali e imperfetti, sviluppando quello che Adler chiama “il coraggio dell’imperfezione”.
Photo credit: Fabrizio Dusi, Classic Family for La Galleria BPER Banca, 2023.
Opera esposta in occasione della mostra personale “All that glitters is not gold” a cura di Giorgia Ligasacchi presso la storica sede di Banca Cesare Ponti a Milano. Courtesy of the artist
Fabrizio Dusi (Sondrio, 1974) è un artista pop-concettuale che spazia fra diversi linguaggi artistici, dalla ceramica alla pittura, contaminando spesso le due tecniche, oltre a sperimentare l’uso del legno, del vetro, del plexiglass, dell’acciaio fino al neon e alle coperte isotermiche, riflettendo sui temi delle distanze e della solidarietà, sulle barriere e sui contatti mancati, sulla solitudine e sul sostegno reciproco. Le sue opere sono esposte in numerose collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero. Tra le installazioni permanenti a Milano, città dove vive e lavora, si segnalano: “Don’t Kill” alla Casa della Memoria, “Basta blablabla” alla Bocconi Art Gallery e “Due passeggeri” al Passante Ferroviario Garibaldi.