
Anna Castiglione è stata uno dei keynote speaker al congresso dell’International Association of Counseling tenutosi a giugno 2024 a Napoli. È ricercatrice al Dipartimento di psicologia dell’Università di Trento, dove sta costruendo un programma di educazione all’azione climatica che fa leva su alcuni fattori psicologici per aumentare i comportamenti pro clima nei giovani adulti. Le connessioni tra il suo lavoro e il counseling sono apparse evidenti, tanto che abbiamo deciso di approfondire la questione con un’intervista, per capire come la nostra professione possa attivarsi in questa direzione, lavorando su quali fronti e sviluppando quali competenze. Ecco cosa ci ha risposto.
Rivista Evoluzioni: Ciao Anna e grazie di averci concesso il tuo tempo. Volevamo partire dalla tua presentazione per andare un po’ in profondità e fare insieme una riflessione su cosa immaginiamo possano fare i counselor, nello scenario che hai descritto. La crisi climatica, come hai sottolineato nel tuo intervento, può abbracciare un po’ tutte le crisi di questo periodo storico e tu ne hai nominate diverse. Considerata la tua esperienza e la tua ricerca, ti chiediamo: in quale di queste crisi potrebbe essere più utile un intervento di counseling e in quali di questi ambiti potrebbe funzionare meglio, ottenere più risultati ed essere più efficace?
Anna Castiglione: È una domanda importante, che tocca l’intersezionalità della crisi climatica e del modo in cui si abbatte non solo sui sistemi della nostra società ma anche sulla psiche delle persone. Spesso fenomeni come la preoccupazione e la sua fase più estrema, che abbiamo chiamato ansia climatica, scaturiscono da esperienze dirette derivanti dalla crisi climatica stessa, anche se solo osservate e non vissute in prima persona.
Un esempio raccontato al convegno è quanto successe in alcuni comuni del Trentino nell’estate del 2022, quando la siccità portò al razionamento dell’acqua. Dalle 11:00 di sera alle 6:00 di mattina, persone vicine a noi e non in qualche luogo remoto non avevano accesso all’acqua dalle loro case.
Sperimentare eventi di questo genere o semplicemente essere persone informate che osservano le crisi migratorie a cui andiamo incontro, sia in Italia sia in Europa, non è banale ed è la ragione per cui al congresso l’avevo definito il prerequisito necessario per un’attivazione emotiva e comportamentale che porti alla consapevolezza che la crisi esiste: questo genera una fortissima preoccupazione rispetto ai grossi impatti anche psicologici.
Ma la chiave dell’importanza di quello che fate in AssoCounseling, per esempio, è l’essere suddivisi in gruppi attivi, in settori diversi della società, che sono colpiti in modo differente dagli impatti climatici: dai giovani agli impiegati di azienda oppure a chi è in prima linea a gestire le emergenze o ancora alla comunità LGBTQ+.
L’idea, secondo me molto importante, sarebbe quella di poter avere, come counselor, un’infarinatura generale sulla crisi climatica, le sue cause, i suoi impatti e un po’ di familiarità con l’ansia climatica e le sue declinazioni: da quella più lieve, non clinica, a quella più grave, per poter identificare i sintomi e saper indirizzare la persona verso un percorso di cambiamento. La cosa migliore sarebbe possedere delle competenze che siano il più possibile trasversali, utili a comprendere quando sia più opportuno indirizzare chi ci sta chiedendo aiuto verso altri professionisti, se non si riesce a intervenire efficacemente in prima persona in una determinata area.
Inoltre, ritengo che il fenomeno della preoccupazione sia più diffuso di quello dell’ansia climatica vera e propria e quindi possano essere maggiori i casi in cui il counselor ha uno spazio d’azione.
RE: Finora abbiamo parlato di interventi di counseling dopo lo scoppio dell’incendio. Per come la vediamo in redazione il counseling, rispetto ad altre professioni di aiuto che intervengono quando c’è in atto una patologia, ha il privilegio, forse un po’ il dovere, di intervenire prima, vale a dire affinché gli incendi scoppino meno.
Come? Lavorando sugli interventi di prevenzione, sensibilizzazione, attivazione di consapevolezza: per esempio in ambito scolastico ma non solo.
Ci sono alcuni temi, che stanno attraversando la nostra contemporaneità, che non possiamo ignorare e di cui non possiamo essere inconsapevoli. In quanto counselor, crediamo che questi temi siano da affrontare con attenzione, rinforzando le difese immunitarie delle persone che chiedono di essere sostenute. Come la vedi tu?
AC: La posizione del counselor, in termini di prevenzione e azione “prima del problema” è qualcosa di prezioso e, a seconda del settore in cui si opera, è possibile svolgere dei percorsi che includano, per esempio, una formazione rispetto alle emozioni relative al cambiamento climatico. Molte persone non hanno la consapevolezza di come il loro malessere, quando pensano alla questione ambientale e al proprio futuro, sia legato a questo bombardamento di informazioni, tendenzialmente catastrofiste, a dispetto delle poche opportunità di azione costruttiva offerte nei vari ambiti, ad esempio in quello scolastico.
I percorsi didattici di educazione ambientale raramente sono preposti a indirizzare gli studenti e le studentesse verso esperienze di volontariato: il coinvolgimento collettivo, invece, agevolerebbe il passaggio dalle emozioni negative a quelle positive che riguardano il sentirsi efficaci, il provare a cambiare qualcosa, ma anche la condivisione con gli altri.
Sarebbe interessante, perciò, istituire percorsi di educazione alle emozioni climatiche: un esempio è la “solastalgia”, quella nostalgia verso i luoghi a noi cari per come erano un tempo, rispetto a come si sono trasformati oggi a causa del cambiamento climatico. Altre condizioni di malessere, invece, riguardano la paura del futuro, la rabbia verso le istituzioni, la frustrazione, il senso di colpa.
RE: Molto spesso i giovani, oltre a un bombardamento di informazioni, sono sottoposti a una sorta di “gaslighting”, di doppia comunicazione, perché da un lato abbiamo attivisti e scienziati più o meno catastrofisti, dall’altro esiste buona parte della politica, in Italia e nel mondo, che minimizza o addirittura nega. Questo fattore può contribuire ad accrescere l’ansia climatica?
AC: Assolutamente sì, infatti stiamo studiando modi di aumentare la fiducia nelle istituzioni per non lasciare le persone completamente “hopeless” rispetto all’idea di attivarsi, senza cadere in uno stato di incapacità.
D’altro canto, se una persona sente che la politica è lontana, si demotiva rispetto all’idea di mettersi insieme ad altre persone per chiedere la riduzione delle emissioni. Il punto è che, purtroppo, in Paesi come l’Italia, quello che emerge è il disinteresse della politica verso questo tema, anche se esistono figure politiche a livello regionale o comunale che si battono per la mitigazione climatica.
Come cittadine e cittadini è molto importante acuire il radar: intercettiamo le figure politiche attive per supportarle nello spazio civico, perché possiamo fare la differenza se crediamo che un cambiamento possa arrivare.
RE: È importante quindi una figura professionale che possa fungere da catalizzatore di interventi educativi, sensibilizzazione e attivazione, anche in casi di preoccupazione climatica.
Lavorare a livelli psicosociali e incentivare l’attivismo, inteso come forma di cura dell’impotenza, può rappresentare una possibilità, altrimenti l’immobilità può portare alla depressione. Inoltre, queste figure possono svolgere una funzione abilitante all’interno delle associazioni e organizzazioni di attivisti, favorendone il buon funzionamento e le relazioni interne. Cosa pensi tu di questo?
AC: Come ricercatrice psicologa, ma anche come persona attiva all’interno di gruppi di advocacy, confermo l’esistenza di problemi di gestione del lavoro in team, delle relazioni interne, del benessere, del burnout, tutte quelle tematiche che il counseling tratta in prima linea nei settori in cui opera: avere un aiuto esterno professionale nella gestione di queste componenti diventa un valore aggiunto non indifferente.
Negli spazi di azione civica c’è posto per tutte e tutti, se si è estroversi c’è la possibilità di mostrarsi in pubblico per portare avanti certe istanze sociali e quando si è introversi, e più orientati al lavoro individuale, c’è una grande attività organizzativa, probabilmente l’80% o il 90% dell’efficacia dell’attivismo e del volontariato.
Un’altra direzione verso la trasformazione della società potrebbe avvenire a livello individuale con il cambiamento comportamentale, vale a dire decidere di smettere di usare la macchina o di mangiare la carne, il che può essere accompagnato anche da modalità di divulgazione sia sui social sia parlando con amici e familiari. Avviare chi non è ancora entrato in uno spazio di azione alla possibilità di questa soluzione comportamentale, come metodo di coping, è qualcosa che il counselor potrebbe fare e che sarebbe molto prezioso, come anche entrare in luoghi in cui le persone sono già attive per dare una mano nella gestione.
RE: Per esempio, alcune persone, quando hanno iniziato a mangiare meno carne, hanno avuto dei problemi perché la società non era pronta ad accogliere tali bisogni. Voi avete una casistica o un manuale che possa aiutare i counselor che offrono supporto a chi vuole intraprendere questo percorso?
AC: A volte mi trovo a fare un elenco proprio per cercare di essere il più completa possibile nel fornire informazioni rispetto a tutti quei meccanismi psicologici che possono essere utilizzati per facilitare l’approccio al cambiamento comportamentale. Ho parlato del coinvolgimento emotivo, del senso di efficacia, della norma sociale, dell’immaginazione per avviare un percorso verso comportamenti pro clima che ogni professionista utilizza come meglio crede, a seconda del contesto in cui si trova o della persona che ha davanti, per individuare quale ha più probabilità di funzionare.
Facciamo un esempio: se siamo davanti a qualcuno che tiene molto alle persone che lo circondano e alla propria immagine, sicuramente può aiutare una leva come la norma sociale. Ci sono studi che mostrano come i giovani adulti hanno cominciato ad attuare comportamenti pro clima molto di più in questi ultimi anni rispetto al passato. La leva della norma sociale è un fattore dimostratosi molto efficace nel momento in cui le persone vengono a sapere che amici e conoscenti hanno ottenuto cambiamenti positivi.
Se ci troviamo davanti a qualcuno di particolarmente creativo, possiamo usare la leva dell’immaginazione per aiutare questa persona a riflettere su che tipo di mondo avremo davanti a noi tra qualche anno. È anche dimostrato da diversi studi come una forte leva motivazionale sia il sapersi immaginare un mondo positivo, in cui noi cittadini ci siamo attivati e abbiamo convinto la politica a regolamentare queste emissioni.
La teoria del cambiamento è utile invece se ci troviamo davanti una persona che pensa a questioni sociali ed è coinvolta a livello politico per aiutarla a immaginare come l’azione in un luogo, nello spazio e nella storia, possa provocare un cambiamento che va espandendosi a livello globale, come ad esempio è accaduto per il movimento a favore dei diritti civili, partito dal Montgomery in Alabama negli anni ’60 e andato via via ampliandosi.
RE: Sarebbe forse utile una formazione ad hoc… ci hai pensato?
AC: In realtà, guardando il mio lavoro, sto strutturando la mia ricerca proprio nella creazione di un percorso di educazione all’azione climatica che faccia leva su tutti questi fattori. Al momento è strutturato in sei incontri, dura più o meno sei settimane suddivise in tre ore per ogni incontro, in cui si affronta una sfaccettatura della crisi climatica. Si parte dalle cause e dagli impatti per poi arrivare a parlare dell’aspetto economico legato alla crisi climatica e del coinvolgimento civico, di ciò che può fare la cittadinanza dal basso.
Dall’inizio alla fine del lavoro vado a misurare tutti i fattori psicologici in gioco e quanto sono riuscita a spingere le persone a essere più attive a livello individuale e collettivo attraverso questionari, con il cosiddetto “ecological momentary assessment”: giorno dopo giorno, per un paio di settimane prima e un paio di settimane dopo, acquisisco tutte queste misure psicologiche e comportamentali che mi permettono di dire se c’è stato o meno un cambiamento.
Sto testando questa formazione con giovani adulti, quindi prevalentemente universitari e liceali, ma l’idea è quella di indirizzarlo a diverse fasce della cittadinanza, modificandolo sulla base di chi abbiamo davanti.
L’ideale sarebbe organizzare percorsi attivanti per formatori, quindi non tanto rivolti all’audience stessa ma a chi è un divulgatore, perché il potere di moltiplicazione e di diffusione di questi contenuti sarebbe maggiore. Un interessante gruppo di utenti è quello costituito dagli insegnanti di liceo dove si offre un framework di contenuti sulla crisi climatica e sulla psicologia climatica, utile per coinvolgere gli studenti a elaborare modi concreti di attivazione.
Tutto ciò avrebbe molto senso se portato avanti da una disciplina qual è il counseling, che potrebbe fornire un vademecum, un toolkit del counselor per attivare le persone a seconda dei diversi contesti.
RE: Hai pensato a una costellazione di professionalità da rendere partecipe in questo tipo di progetto? Quale potrebbe essere secondo te un gruppo di figure chiave, tra cui per esempio il counselor, da coinvolgere per accrescere questo tipo di sensibilità e raggiungere il maggior numero di persone?
AC: Tutte quelle professioni che hanno a che fare con la formazione, il benessere psicologico e il cambiamento comportamentale per me sono attività chiave, perciò professori di liceo o di università ma anche educatori, counselor, psicologi, chiunque a livello lavorativo abbia un ruolo in questi ambiti. E anche quelle specialità che da un lato permettano una divulgazione di contenuti e dall’altro possano avere una forma partecipativa: quello che può realizzare un insegnante dentro una scuola è coinvolgente come quello che può proporre un ente culturale, sviluppando delle mostre interattive o degli eventi culturali nell’ambito di festival o rassegne cinematografiche, con link alle associazioni di volontariato del territorio, che consentono ai cittadini di attivarsi. Sicuramente privilegio quei professionisti che possono interfacciarsi con il proprio pubblico in modo partecipativo, perché l’attivazione climatica richiede un’interazione: è proprio qualcosa che ho riscontrato nella mia esperienza.
Nei miei studi ho anche provato a creare delle rassegne di video per proporre contenuti che ritenevo potessero stimolare le persone rispetto ai fattori di cui sopra, ma in questo modo si viene privati di quel contesto sociale di reciprocità, che invece si crea mentre si partecipa a un’attività in presenza, utile alla costruzione di un gruppo e di una cittadinanza attiva.
I giovani adulti sono le persone che si troveranno in posizioni decisionali abbastanza influenti per poter avviare un percorso di trasformazione, perché entro pochi anni saranno nel mondo del lavoro.
RE: Nella rivista dedichiamo particolare attenzione a tutti quei progetti interdisciplinari o multidisciplinari che riuniscono più figure per lavorare su una tematica. Ti è capitato di mettere insieme più competenze professionali e di coinvolgere counselor per riflettere su queste tematiche?
AC: Sì, in una formazione online a enti pubblici e culturali del Nord Italia, che è stata fatta la primavera scorsa. Io e un facilitatore, un educatore che lavora sulla questione climatica, ed enti pubblici di tre città, Mantova, Cuneo e Rovereto. La formazione si rivolgeva a operatori che lavorano in questi enti culturali o nel terzo settore, professionisti che nonostante lavorino in ambiti diversi, spesso finiscono per intrecciarsi. È stato bello pensare ai modi in cui gli enti possono riflettere su come rivoluzionare le proprie modalità lavorative e l’offerta che si rivolge al pubblico, come ad esempio iniziative culturali per la cittadinanza che siano attivanti sulla questione climatica. È stata la mia unica esperienza di lavoro con professionisti in modo intersezionale, ma rappresenta una risposta ai temi che vogliamo affrontare.
Quello che sarei felice di proporre in futuro è un’offerta formativa che sia strutturata su contenuti riguardanti sia la crisi climatica sia la psicologia climatica, permettendo di creare una situazione laboratoriale dove counselor che lavorano negli stessi settori si mettono insieme e provano a immaginare più incontri di buone pratiche efficaci, percorsi di prevenzione e cambiamento, con una supervisione personale che potrei offrire in merito alla forma: è sicuramente una sinergia che potrebbe andare a costituire una formazione completa.
Per approfondire, ecco altri interessanti contributi di Anna Castiglione:
- Pubblicazioni accademiche su ResearchGate
- Pubblicazioni divulgative su IconaClima
- Podcast su Riflessi di Scienza
- Podcast su Chiara.eco
- Podcast su Spotify